Se dovessimo prendere alla
lettera le vicende raccontate nella fiaba di Pollicino, il
quadro che ne scaturirebbe sarebbe fortemente sconfortante.
Una povera famiglia di contadini, numerosa come solo le
povere famiglie di contadini sono solite essere; cinque
figli, cinque bocche da sfamare, una guerra alle porte che
acuisce lo stato di povertà del nucleo famigliare, due
genitori senza cuore (se abbandonare i propri cinque figli
nella foresta perché non si sa cosa dare loro da mangiare
possa essere considerato un gesto crudele invece che
un'azione dettata da una tragica disperazione); soldataglie
ostili che depredano la regione ed infine un orco che si
lecca i baffi al pensiero di sbocconcellarsi quei cinque
teneri bocconcini capitati per caso nella sua dimora.
Insomma, ce n'è abbastanza per una allarmata chiamata al
telefono azzurro.
Per fortuna, ci sorreggono le moderne interpretazioni
psicoanalitiche che ci parlano di conflitto generazionale,
del primato dell'intuizione e della creatività infantile,
della affermazione della diversità e della tolleranza verso
di essa, dell'inconscio e subconscio che i personaggi
sogliono simboleggiare. Certo è che, pur a voler
privilegiare questa lettura paradigmatica, la triste storia
di Pollicino rimane una di quelle che eviterei accuratamente
di raccontare a mio figlio.
Peraltro, il film di Olivier Dahan, - l'altro precedente
cinematografico è rappresentato dal film C'era una volta
Pollicino di Michel Boisrond del 1972 - sembra attenersi con
rigore alla trama della favola di Perrault aggiungendovi
solo qualche elemento come la guerra, a giustificare lo
stato di profonda indigenza dei contadini e inventando il
personaggio di Rose, una delle cinque figlie dell'orco che a
differenza delle sue sorelle non aspira ad un futuro di
orchessa. Il resto è molto attinente all'opera del narratore
francese - non nuovo a fiabe tristi, ricche di figli
diseredati e maltrattati, basti pensare a Cenerentola o al
Gatto con gli stivali - così assistiamo, con profonda
costernazione, allo smarrirsi dei cinque fratellini nella
foresta abitata da lupi famelici ed altre pericolose bestie,
all'incontro con il terrifico orco (Dominique Hulin, una
parte in Strada senza ritorno di Samuel Fuller) alle imprese
del volitivo Pollicino (il piccolo Nils Hugon, un faccino
piccino piccino con un musetto furbetto) dapprima denigrato
dai fratelli maggiori, è l'ultimo di cinque figli, ma poi
osannato da questi come loro eroe e salvatore. Tutto questo
raccontato dalla mano felice del regista francese, capace di
fotografare con raro gusto policromo le bellissime
scenografie di Michel Barthelemy, già scenografo in Sulle
mie labbra, che incastonano i personaggi e gli eventi in
raffinati quadretti che ricordano molto le illustrazioni
ottocentesche dei libri per l'infanzia.
di Daniele Belmonte
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