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Vincent Pérez, Mimmo Calopresti, Francesca Neri, Valeria Bruni Tedeschi, Laura Betti


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     RECENSIONI


Qualcuno, negli USA, ha scritto di recente, in occasione di una retrospettiva dei film di Mimmo Calopresti che si è tenuta a New York e a San Fancisco, che i titoli delle sue opere compongono già una storia che corre attraverso e sopra i film stessi. Quest'ultimo, si guarda bene dal tradire questa vocazione. Anzi, nella sua esplicita perentorietà la riafferma con più vigore: anche se si tratta di un film che segna qualcosa come una svolta o una rottura nel suo percorso limitato ancora a tre o quattro film ma preciso e ben riconoscibile fino ad ora. Di cosa parla? Forse è giusto dire "quanto parla", visto che il suo protagonista non fa che pensare ad alta voce e dire la propria ad ognuno che lo circonda e ad ogni angolo di una città che batte con una ossessione infaticabile. Ha abbandonato prima il lavoro, poi la famiglia e durante l'attesa drammatica di un intervento chirurgico, il film ripassa insieme a lui la sua vita: il senso di colpa per la morte di un capocantiere, l'incontro fugace con una donna sconvolgente (Francesca Neri), l'ambiguo affetto che lo lega indissolubilmente ai suoi cari. Più che parlare o raccontare, La felicità non costa niente documenta una ricerca tanto affannosa quanto nobile, alla quale riconoscere il valore universale di un diritto inalienabile, che però si consuma nella rissa della vita dove ognuno è sempre più scomposto e vulnerabile di quanto si sarebbe immaginato prima di doverla affrontare. Ma la tenacia con la quale il personaggio insegue tale ricerca è pari all'inermita che rivela nell'impresa: cercare con cura e caparbietà di non essere infelici, mantenere in vita a qualsiasi costo la tensione dell'incontro con gli altri, esplorare senza paura ogni affetto. Occuparsi di sé e degli altri che ci sono vicini nella stessa misura, non avere paura di dissiparsi nella vita, ma neanche di errare, oziare, sparire, concentrasi su un'ossessione e liberarsene come dopo una malattia o una convalescenza. Il film contiene implicitamente la lussureggiante provocatorietà di chi sembra occuparsi di qualcosa di effimero e impalpabile in un'epoca in cui chiunque sembra non potersi occupare di tutto ciò che invece è grave, pesante, irreparabile. L'estinzione di forme di sicurezza personale, la definitiva perdita di quelle del lavoro, il destino del pianeta. Ma si può davvero rimproverare il suo cinema di leggerezza? Fino a questo film, qualcuno avrebbe anche potuto con più probabilità tentare una lettura avversa. Da La seconda volta, fino a Preferisco il rumore del mare, il peso specifico dei suoi film - un peso che gli è stato riconosciuto dalla critica e dal pubblico sin dall'inizio: un autentico privilegio nella tradizione autolesionista del cinema italiano degli ultimi decenni - si addensa intorno a momenti di assorta concrezione drammatica trattati con una pienezza che non ha mai rinunciato agli strumenti tradizionali della messa in scena e dell'occhio d'autore. Una luce tersa e marcata, un lento carrello, un ricorso consapevole e senza timidezze al valore di una colonna sonora, la lunghezza di una inquadratura La felicità non costa niente, invece, sembra procedere sull' onda dell' adozione, caparbia, di un sentimento quasi diametralmente opposto. Il film inizia come la classica narrazione di un male oscuro, il dramma di un uomo che dalla normalità precipita prima nella depressione e poi nella leggera follia, passando attraverso le inevitabili stazioni del senso di colpa, dell'egoismo sentimentale, del desiderio di purificazione, abbandono, annullamento nell'amore. In realtà, di tale drammaturgia Calopresti adotta solo le apparenze superficiali, il percorso codificato da innumerevoli altre narrazioni simili. Invece non è una discesa negli inferi della caduta sociale o in quelli dell'alienazione soggettiva, ma la cronistoria del tentativo ostinato di non lasciare alla vita il monopolio della propria biografia. Il tono del film è privo di grandi temperature drammatiche, la sceneggiatura inonda lo schermo delle sue piccole e grandi disavventure senza soffermarsi più del tempo necessario a illustrarne il carattere esemplare e generale, il dramma è stemperato da numerosi tocchi di humor, svolte impreviste, cambi di voce narrante. Una grande varietà di prospettive urbane propone ovunque la stessa sfida e la stessa tenace pretesa. E' davvero così importante cercare di essere felici, qui, adesso, su questo pianeta? Non si legge altro sulle facce dei passanti, nelle facce degli innamorati, persino nel sorriso dei bambini. Il protagonista, è una specie di spavaldo vigilantes di tale ambizione. La impersona anche ad uso e beneficio degli altri. Anche se rovina nel fisico e nella mente per le conseguenze di tale presunzione, non c'è un momento del film in cui sembra credere a qualcosa di diverso da questo: lottare per "star bene", è un impegno ancor più importante che lavorare per la propria affermazione personale, essere devoti ad un' idea, credere in un mondo trascendente o in un futuro migliore. Storia di un uomo che commenta se stesso con lo stesso distacco con il quale affronta le numerose avversità che incontra, il film vive soprattutto di una disinteressata volontà di curiosità e scoperta, quasi di natura filosofica. Come un novello epicureo o un assorto stoico, il personaggio sembra intenzionato a compilare l'inventario di ciò che può arricchirci, sostenerci, nutrirci, appassionarci, come se fosse il primo uomo a cercare di farlo sul serio. E' questa ingenuità e questa radicalità a farne un film del tutto diverso da quelli che si fanno nel nostro paese in questo momento. Invece di tentare di rispecchiare o di illuminare i limiti di un mondo, Calopresti cerca di capire se esistano delle istruzioni per affrontarlo in maniera diversa. Quali sono? Assumere il rischio del cambiamento costante, andare fino in fondo, sopravvivere ad ogni passo al contraccolpo della provvisorietà delle cose. Il suo cinema, a differenza dei suoi personaggi, si adatta docilmente alle imprese che il regista accarezza. L'inquadratura è mobile, frammentaria, luminosa, ricca di liquidi e traslucidi contrasti (grazie al talento della fotografia di Arnaldo Catinari) come se ogni immagine dovesse contenere la precisione di un dettaglio cruciale. Gli attori vi si muovono con nervoso stupore e ironica rassegnazione. Lo stesso regista, nei panni del personaggio principale - una acquisizione maturata attraverso apparizioni, nei suoi film e in quelli di altri, sempre più impegnative - sembra più sfuggire l'occhio della macchina da presa che riempirlo con il proprio sguardo che fissa sempre un po' più in alto dell'asse dell'obiettivo. Il passo è quello di una ballata che scolora sempre il dolore nel leggero sarcasmo o nella remota nostalgia, la musica (soprattutto quella spassionata e malinconica degli Avion Travel) apre piccole epifanie nel film come bruciature di sigarette su un fragile tessuto. E' proprio il linguaggio musicale quello che libera nel film le intensità più solide, l'unico in cui il personaggio e il suo quadro sembrano finalmente a proprio agio. Oppure quello del sogno o dell'allucinazione, come nella bella scena del paradiso-cantiere in cui finalmente vediamo il mondo pacificato e sereno che il protagonista non cessa mai di inseguire. In fondo la sua morale, che bordeggia temerariamente il rischio del narcisismo e l' attraente martirio dell'autodistruzione, è più semplice e tagliente di quanto ci aspettavamo all'inizio e forse è stata già raccontata dai titoli dei suoi film. Ancora una volta, infatti, la parola amore esiste, la felicità non costa niente e i film di Calopresti continuano a farci sognare e palpitare.

di Mario Sesti - Kwcinema 29/01/03


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