Legioni di nuvole che galleggiano fino all'orizzonte, campi
di grano accecanti, un borgo di allevatori e contadini che
sembra isolato dal mondo: nel portare sullo schermo il bel
romanzo di Niccolò Ammaniti ("Io non ho paura"), Salvatores
stavolta ha avuto buon gioco nel disseminarlo di quelle
ossessioni del cinema americano che porta sempre con sè in
incubazione in ogni film. L'idea di allestire in un angolo
meridionale dell'Italia degli anni '70 una sorta di
immaginario midwest mediterraneo, che affonda le radici in
un mondo rurale e primordiale, lontano dalla modernità,
provvede a fornire all'intreccio del romanzo una scena
congeniale. Sembra il paesaggio ideale di un racconto di
Stephen King in cui un gruppo di teenager viene per la prima
volta a contatto con il pericolo della morte, l'orrore e il
mistero che sono il controcanto di ogni avventura: è invece
lo scenario in cui si annida la gestione del rapimento di un
bambino negli anni '70. Scena diversa, stesso orrore. Tra
radio a transistor e biscotti Ringo, tra empori dove si
vendono pagnotte e ceri per le preghiere e il faccione di
Emilio Fede, la cui chioma gremiva in quegli anni lo schermo
del TG1, il film ripercorre piuttosto fedelmente la graduale
scoperta del giovane protagonista del romanzo: il padre,
camionista, con la complicità di un altro paio di famiglie
limitrofe e la regia di un minaccioso Abatantuono nella
parte di un disperato e balordo basista, tiene segregato un
bambino per ottenere un riscatto dalla ricca famiglia del
nord al quale appartiene. Michele, il ragazzo protagonista,
che scopre il bambino stravolto, denutrito e incatenato
nell'orrido anfratto di un casolare in rovina - un tratto
del soggetto che richiama un film di Carlo Carlei: La corsa
dell'innocente - avrà un ruolo decisivo nella vicenda,
andando incontro ad una sorta di dramma edipico
all'incontrario. Nei racconti di Ammaniti, probabilmente il
più dotato tra i giovani narratori italiani delle ultime
stagioni, c'è sempre l'irruzione di brutalità, sopraffazione
e violenza in una quotidianità amorfa o inconsapevole della
propria domestica mostruosità. A volte i suoi racconti
stingono in un granguignol grottesco, ma questo romanzo è
costantemente sotto il controllo di uno stile che punta ad
un'area più sfuggente e delicata: il disvelamento dello
squallore degli adulti e la percezione della loro miseria e
fragilità, il fascino del fantastico e la scoperta
traumatica della diffusione dell'illegalità. La paura è
l'emozione attraverso la quale il protagonista scopre
l'esistenza di una istintiva fraternità, quasi animale, ma
anche la possibilità di non soccombere ad un mondo crudele e
infelice, anche se il film conserva una speranza di lieto
fine che il romanzo sembra decisamente escludere. Il passo è
fluido e sicuro, i bambini protagonisti sono tutti dotati di
una mobile vividezza, gli adulti lavorano al tratto grosso
delle loro canaglie piene di disperazione e paura, senza
accanirsi sul loro cinismo, il paesaggio maestoso e remoto,
è l' originale scenografia di una sorta di gotico pugliese o
lucano. Se il protagonista fosse ancora vivo e sentisse oggi
i dibattiti sul terrorismo, pieni di rancore per gli anni di
piombo, forse avrebbe voglia di raccontare cos'era il resto
d'Italia in quegli anni: quando si progettavano i rapimenti
in una fattoria, col sottofondo del borbottio della passata
di pomodori sul fornello.
di Mario Sesti - Kwcinema