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Diego Abatantuono, Dino Abbrescia Aitana Sánchez-Gijón


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Legioni di nuvole che galleggiano fino all'orizzonte, campi di grano accecanti, un borgo di allevatori e contadini che sembra isolato dal mondo: nel portare sullo schermo il bel romanzo di Niccolò Ammaniti ("Io non ho paura"), Salvatores stavolta ha avuto buon gioco nel disseminarlo di quelle ossessioni del cinema americano che porta sempre con sè in incubazione in ogni film. L'idea di allestire in un angolo meridionale dell'Italia degli anni '70 una sorta di immaginario midwest mediterraneo, che affonda le radici in un mondo rurale e primordiale, lontano dalla modernità, provvede a fornire all'intreccio del romanzo una scena congeniale. Sembra il paesaggio ideale di un racconto di Stephen King in cui un gruppo di teenager viene per la prima volta a contatto con il pericolo della morte, l'orrore e il mistero che sono il controcanto di ogni avventura: è invece lo scenario in cui si annida la gestione del rapimento di un bambino negli anni '70. Scena diversa, stesso orrore. Tra radio a transistor e biscotti Ringo, tra empori dove si vendono pagnotte e ceri per le preghiere e il faccione di Emilio Fede, la cui chioma gremiva in quegli anni lo schermo del TG1, il film ripercorre piuttosto fedelmente la graduale scoperta del giovane protagonista del romanzo: il padre, camionista, con la complicità di un altro paio di famiglie limitrofe e la regia di un minaccioso Abatantuono nella parte di un disperato e balordo basista, tiene segregato un bambino per ottenere un riscatto dalla ricca famiglia del nord al quale appartiene. Michele, il ragazzo protagonista, che scopre il bambino stravolto, denutrito e incatenato nell'orrido anfratto di un casolare in rovina - un tratto del soggetto che richiama un film di Carlo Carlei: La corsa dell'innocente - avrà un ruolo decisivo nella vicenda, andando incontro ad una sorta di dramma edipico all'incontrario. Nei racconti di Ammaniti, probabilmente il più dotato tra i giovani narratori italiani delle ultime stagioni, c'è sempre l'irruzione di brutalità, sopraffazione e violenza in una quotidianità amorfa o inconsapevole della propria domestica mostruosità. A volte i suoi racconti stingono in un granguignol grottesco, ma questo romanzo è costantemente sotto il controllo di uno stile che punta ad un'area più sfuggente e delicata: il disvelamento dello squallore degli adulti e la percezione della loro miseria e fragilità, il fascino del fantastico e la scoperta traumatica della diffusione dell'illegalità. La paura è l'emozione attraverso la quale il protagonista scopre l'esistenza di una istintiva fraternità, quasi animale, ma anche la possibilità di non soccombere ad un mondo crudele e infelice, anche se il film conserva una speranza di lieto fine che il romanzo sembra decisamente escludere. Il passo è fluido e sicuro, i bambini protagonisti sono tutti dotati di una mobile vividezza, gli adulti lavorano al tratto grosso delle loro canaglie piene di disperazione e paura, senza accanirsi sul loro cinismo, il paesaggio maestoso e remoto, è l' originale scenografia di una sorta di gotico pugliese o lucano. Se il protagonista fosse ancora vivo e sentisse oggi i dibattiti sul terrorismo, pieni di rancore per gli anni di piombo, forse avrebbe voglia di raccontare cos'era il resto d'Italia in quegli anni: quando si progettavano i rapimenti in una fattoria, col sottofondo del borbottio della passata di pomodori sul fornello.
 
di Mario Sesti - Kwcinema


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