Primo lungometraggio di un giovane regista milanese di
origini calabresi, "Il Dono" è un film anomalo nel panorama
commerciale del cinema italiano. Non tanto per il budget di
5.000 Euro con il quale è stato girato, che in questa sede
poco ci importa, quanto per il tipo di racconto che fa. "Il
Dono", in effetti, non racconta tanto una storia quanto una
situazione, un luogo. Un luogo fittizio, perché la Caulonia
qui mostrataci non è quella reale in cui il film è stato
girato, nonostante la continua proposta di immagini delle
tante carrette del mare che ne affollano le spiaggie. Ma è
tutto il film ad essere un continuo ritornare di immagini e
momenti, che esalta il senso di quotidianità - di
ineluttabilità - che circonda i personaggi. La vita
dell'anziano protagonista ha un sussulto solo quando si
ritrova in mano un telefono cellulare ed una foto porno, ma
la lentezza con cui decide il da farsi ci fa capire quanto
profondamente si sia arreso allo status quo, alla vita
stessa. Non si sono invece arrese alcune vecchie di questo
piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria, che
sottopongono la "scema del villaggio" a continui riti
anti-malocchio. Ma in entrambi i casi appare chiaro come
sarà la vita ad avere l'ultima parola, anche senza l'ausilio
di dialoghi.
Inserito nella sezione "Cineasti del presente" del Festival
di Locarno 2003, "Il Dono" è infatti presentato come un film
'senza dialoghi'. E così è, in effetti; ma non è un film
muto. Non lo è innanzi tutto perché ha un'intensa colonna
sonora fatta di suoni e rumori (ma non di musica) che
raccontano splendidamente l'ambiente che fa da cornice alla
storia - no: che è la storia. Ma 'senza dialoghi' è una
definizione corretta anche per un altro motivo: perché
questo non è un film 'senza parole'. I personaggi parlano,
in effetti, ma non dialogano mai: non c'è mai un vero
scambio di battute, c'è sempre e solo un personaggio che
parla - senza ottenere risposta - all'interno della scena.
"Senza ottenere risposta"? No: "senza bisogno di avere
risposta", perché Frammartino sa far dire ai suoi personaggi
il numero giusto di parole per impedire che la scena sembri
finta e sa limitarle al minimo per poter narrare utilizzando
appieno il linguaggio filmico. Linguaggio, in questo caso,
fatto di piani sequenza e macchina fissa, inquadrature
volutamente prolungate e luce naturale.
Punto di riferimento per il suo cinema è chiaramente Abbas
Kiarostami, richiamato in quasi ogni sequenza e citato
apertamente nel finale. Peccato che il direttore della
fotografia non sia stato in grado di dare tridimensionalità
al film esaltando con il suo lavoro i luoghi in cui la
storia è ambientata, e sì che nelle pellicole di Sharunas
Bartas - altro evidente amore del regista - le immagini
colpiscono spesso proprio per la bellezza della fotografia.
Ma di Bartas, Frammartino conserva soprattutto l'ambiguità
espositiva: poche sono le cose spiegate in maniera evidente,
in questo suo racconto - non lo è nemmeno il dono che dà il
titolo al film. Questa cercata ambiguità appiattisce le
emozioni che il film vorrebbe far nascere nel cuore dello
spettatore, ma aumenta il fascino di una pellicola che si
offre a molteplici interpretazioni, senza disattenderne
nessuna ma a dir la verità senza riuscire ad appagarne
pienamente alcuna.
Proveniente dal mondo delle installazioni multimediali ma
con una discreta esperienza nei cortometraggi, Frammartino
ha bene in mente il tipo di cinema che vuole fare e sa
raccontare storie per nulla banali. Lo fa con modi ancora da
sgrezzare, anche in quanto a montaggio, ma intanto
avercene...
Alberto Cassani, 9 Agosto 2003 CineFile.Biz